“La psicoterapia non serve”, “E’ tutto inutile”, “Nulla cambia… nessuno può mi può capire”.
Qual è il rimedio per trasformare una psicoterapia apparentemente inutile in un percorso efficace e soddisfacente per la persona… e per il terapeuta?
LA POZZANGHERA
Toh guarda, una pozzanghera!
Il primo, con piccolo slancio la evita felice.
Un altro, bassettino, prende la mira, accorcia la falcata e soddisfatto ci finisce in mezzo.
Il terzo distratto non se ne accorge. Tutto infangato va via brontolando.
Il punto è questo: se vedo la pozzanghera è una cosa. Se non la vedo è un’altra.
L’adulto è colui che, probabilmente, allungherà il passo. Senza tanto ragionarci, l’averla vista, l’avrà già modificato.
Il bambino, forse, lo accorcerà per entrarci nel punto più profondo e con la corona di schizzi più ampia. Il bassettino esultante e soddisfatto.
Chi non la nota… si infanga.
LA PSICOTERAPIA MI SERVE!
Consultazioni psicologiche e psicoterapie hanno spesso differenti durate e differenti obiettivi.
In alcuni casi si propongono di fare ordine in quel caotico e doloroso disagio che affligge la persona.
In altri casi l’interesse è individuare le cause all’origine del dolore.
Spesso si lavora su ambedue: riconoscimento delle cause e risoluzione della sofferenza.
Per altre persone invece il percorso psicologico è una pausa di serenità. Si lascia tutto fuori dalla stanza e si condividono idee, progetti e vissuti. Tutto resta prima della porta. Ci si ascolta e ci si racconta a quella persona chiamata psicoterapeuta.
Incuriosisce e spiazza accorgersi di come la psicoterapia sia sperimentata e ricordata con profonda gratitudine e soddisfazione! Come esperienza che ha dato una svolta alla vita. Come salto di qualità nell’affrontare e risolvere situazioni fino ad allora esasperanti, disperate e di incastro. E come occasione che ha fatto sbocciare competenze fino ad allora neanche lontanamente immaginabili.
O infine la terapia come un coccolarsi, un volersi bene, che, inaspettatamente, ha anche sortito effetti insperati.
LA PSICOTERAPIA NON MI SERVE!
Per altre persone purtroppo il bilancio invece è cupo o incandescente. Rabbie e delusioni celano sentimenti ancor più rimbombanti. Il danno è la perdita di speranza per se stessi e per il futuro che si vivrà. Si vive una solitudine sconsolata e disperata. Tutto ciò è poi verbalizzato con affermazioni note a tutti: “tanto non serve a niente… nulla è cambiato… nessuno può fare qualcosa per me… dopo tanti psicologi non ci credo più…”
A questo punto diventa doveroso ricordare che, al di là delle specifiche finalità e tecniche, il lavoro psicologico è un processo di osservazione, conoscenza e comprensione di ciò che ci accade. È un notare e un ascoltare. Un seguire e un riflettere sugli spifferi che possiamo cogliere in noi.
Questa conoscenza produce cambiamenti. È sempre trasformativa.
LA PSICOTERAPIA COME TRASFORMAZIONE. COSA FACCIO CON QUELLA POZZANGHERA?
Notare e soffermarsi su qualcosa e poi riconoscerne il significato è trasformativo.
Il senso che ciascuno dà alle cose narra di sé, ma non solo. Quel significato modifica come vediamo ciò che ci circonda e il nostro modo di vivere.
Tornando all’esempio della pozzanghera, vederla è diverso dal non vederla.
Cogliere la realtà ci permette di fare delle scelte e veicola i nostri comportamenti: allungare il passo per schivare la pozzanghera o entrarci in pieno per giocare.
Chi resta infangato è chi la pozzanghera non la vede.
Si diceva quindi che il lavoro psicologico è sia un cammino sia un lavorare. È un processo di osservazione e raccolta di elementi. Seguito poi da un lavoro di connessione tra loro.
STEP 1: NOTARE E RACCOGLIERE
Notare e raccogliere ciò che si vive o si è vissuto.
Poi andrà condiviso, ma intanto va notato, acchiappato, e appuntato. È necessario individuare in modo preciso pensieri, emozioni e sensazioni fisiche. Questo lavoro di raccolta è svolto dal paziente tanto quanto dallo psicoterapeuta. Tutti e due cercano, notano… appuntano… e poi condividono.
Ragionano insieme, ma prima come attenti archeologi archiviano, proteggono e catalogano questi documenti nell’attesa di connetterli tra loro. Li custodiscono e li curano per non confonderli l’un l’altro. È indispensabile impedire confusioni tra dati che seppur sembrino simili sono diversi. Perché se confusi porterebbero in una direzione piuttosto che in un’altra: “Sono furioso o sono disperato? Sono ansioso o c’è di che preoccuparsi? Ho perso la fiducia o sono triste? Non capisco io o non mi è stato detto? Non riesco ora, non riesco mai o non è possibile farlo?”
STEP 2: CONNETTERE
Successivamente si connettono i data raccolti. In questa seconda fase si ragiona su ciò che si è trovato e catalogato. Alcuni collegamenti o ragionamenti saranno più immediati e semplici. Altri più complessi o spiazzanti. Anche in questa seconda fase si lavora insieme: paziente e dottore. È un procedere a tratti allineato e a tratti leggermente sfasato in cui uno dei due fa strada. E l’altro è subito lì. Si procede e talvolta si torna indietro perché si capisce che la direzione corretta era un’altra. Niente di grave. Niente di strano.
Talvolta questo procedere porta rapidamente alla meta cercata. In altre situazioni ci si trova in posti inattesi ma sorprendentemente apprezzati. Sono le situazioni che rientrano nella prima casistica elencate poc’anzi. Le situazioni in cui l’esperienza della terapia ed il suo ricordo sono luminosi.
Per alcuni invece il lavoro psicologico porta a perdersi e ci si scopre a sentire e pensare quanto anticipato con le famose frasi: “non è cambiato niente… a che serve… tempo e magari anche soldi buttati… ne ho sentiti tanti e ora ho perso la speranza…”.
È in queste situazioni che diventa indispensabile tornare a riflettere sulle due fasi precedenti: la fase della raccolta dei dati e quella della connessione tra loro.
Cosa è stato notato e di cosa non ci si è accorti? Non è stato visto… o non è stato raccolto e archiviato? E tutti i reperti a disposizione sono stati anche condivisi? O qualcosa è rimasto non detto? E infine… come è stato collegato tutto ciò?
A prima vista possono sembra concetti scontati. O al contrario tutto può risultare troppo astratto. In realtà e per fortuna non è così.
IL RIMEDIO ALLA TERAPIA INUTILE
Nei casi in cui la terapia sembra inutile, è indispensabile, irrinunciabile, fermare tutto e riflettere su ciò che si è portato nello studio dello psicoterapeuta.
Al dottore è stato raccontato tutto? In modo chiaro? Per intero?
Raccontare e spiegare bene e con calma è un diritto. Ed è anche un dovere, ma non è ovvio, perchè non è semplice mettere a fuoco ciò che si prova. Tanto meno è raccontarlo.
Dall’ortopedico mi rendo conto di quanto possa essere complesso raccontare come è fatto quel male alla schiena che mi ha portato da lui. Se poi inizia a chiedere quando si presenta o, peggio ancora, che tipo di dolore è … non ne parliamo!
Allo stesso modo, ci possiamo render conto di quanto sia difficile descrivere ciò che proviamo. Quali termini meglio di altri descrivono ciò che ci passa dentro. Lì ci rendiamo conto che descrivere e raccontare sensazioni, vissuti e pensieri è altrettanto difficile… o forse più ancora!
Ed è altrettanto difficile dire a quel dottore, chiamato psicoterapeuta, che ha capito bene una cosa, ma non l’altra. Che in qualcosa ci ritroviamo… mentre in altro no. Se lo facciamo o l’abbiamo fatto riportiamo la macchina sull’unica strada proficua. Se non si riesce le conseguenze sono inevitabili e drammatiche. Si va fuori strada. E si avverte di non essersi portati a casa nulla. Nulla salvo essere più sconsolati, scoraggiati o arrabbiati di prima.
L’esperienza di una consulenza psicologica che non ha prodotto l’effetto sperato è drammaticamente dolorosa e nociva. E purtroppo non rara.
Non si prova solo frustrazione o rabbia. Ci si sente anche danneggiati. E tra i danni ci può essere anche la compromissione della possibilità futura di chiedere un parere psicologico. Ovviamente se le consulenze o le psicoterapie sono più d’una l’effetto accresce come una valanga.
Certamente è normale scoraggiarsi. Restare però scoraggiati è inutile. È un tombino in cui non si deve cadere o da cui bisogna fuoriuscire. Bisogna liberarsi dall’incastro. Come? Le strade sono molteplici. Qui l’attenzione andrà su una strada che è quella di tenere a mente alcune domande cruciali. Da ricordare e porsi sia durante sia al termine di un percorso psicologico concluso.
LE DOMANDE UTILI
Ho raccontato tutto al dottore? E l’ho spiegato bene? In modo preciso? Cosa non sono riuscito a descrivere? Oppure c’è qualcosa di cui parlo con l’amico davanti a una birra o a cui ripenso tra me e me che non è arrivato nella stanza dei colloqui? E poi… Ma me ne sono accorto? E ancora… L’’ho detto anche a lui? Ne abbiamo parlato?
E d’altro canto… C’è qualcosa che il dottore mi ha detto ma che io non sono riuscito a capire? O qualcosa in cui non mi ritrovavo? O qualcosa che non condividevo per nulla? A questo punto e ancora una volta, mi sono accorto di questi punti di distanza? Direttamente in seduta o successivamente? E gliel’ho segnalato? Ne abbiamo parlato a sufficienza?
È indispensabile avere sempre a disposizione nella mente ciò che si è provato a presentare sinteticamente in questo breve scritto. L’auspicio e la speranza sono che la voglia o il bisogno di occuparsi di ciò che angustia la vita risveglino la curiosità di capire ciò che non è andato bene in una o in ambedue le già menzionate fasi di raccolta e connessione dei dati.
È questa la via. Tornare a ragionare sul lavoro compiuto. Sui percorsi iniziati, su quelli interrotti o su quelli mai intrapresi. E tutto ciò per percorrere uno diverso.
Diverso nel tragitto. E diverso nella conclusione.
di Marco Caltanissetta