LA VERITA’ SULL’AUTOLESIONISMO E I FALSI MITI
L’ autolesionismo racchiude un vasto ed eterogeneo ambito di comportamenti accomunati dal fatto che la persona fa male a se stessa.
Parlare di autolesionismo fa paura e provoca angoscia proprio perché è difficile tollerare l’idea che una persona possa essere così aggressiva e violenta contro se stessa da ferirsi… e talvolta anche arrivare a mettere in pericolo la propria vita.
Il solo pensiero ci fa sentire a disagio.
È drammatico ciò che la persona può fare a se stessa, al contempo è drammatico ciò che subisce infliggendosi tali ferite.
Per questo tale tematica è intrisa di falsi miti e semplificazioni.
Il primo grosso errore è ridurre l’autolesionismo ai tagli sulle braccia … Non è solo questo.
Ferite con svariati oggetti, bruciature, intossicazioni, abrasioni e lesioni gravi, frequenti incidenti apparentemente casuali, sono altri comportamenti tipici. Nei casi più gravi la persona arriva anche a mettere a rischio la propria vita.
Un altro grosso errore è pensare che l’autolesionismo sia un fenomeno prettamente adolescenziale. Basta accendere la tv e ascoltare i fatti di cronica per cadere nell’errata convinzione che solo alcuni ragazzi in crisi, o particolarmente disagiati, possano arrivare a tanto; invece, seppur l’esordio sia spesso in adolescenza, si riscontrano tanti altri casi tra i bambini e gli adulti.
COME PUO’ EVOLVERE L’AUTOLESIONISMO
I comportamenti autolesivi possono restare invariati o modificarsi nel tempo.
Possono variare nella tipologia, come quando, per esempio, a una condotta se ne affianca un’altra che la sostituisce o l’aggrava.
Possono variare nella frequenza che può seguire un andamento oscillatorio per cui si susseguono momenti di picco, in cui i l’autolesionismo è molto frequente, e momenti in cui la persona non mette in atto alcun comportamento.
E possono variare nella gravità per cui si può osservare un’escalation nei casi in cui la condotta aumenta in termini di frequenza e pericolosità.
LA SOFFERENZA DELL’AUTOLESIONISMO
Come scrivevo prima, è drammatica la sofferenza che porta la persona all’autolesionismo, come è altrettanto drammatica la sofferenza che si autoinfligge. E l’impatto non si limita alla singola persona.
Attorno all’autolesionista, familiari, amici, colleghi e talvolta i dottori si trovano in un simile tunnel di angoscia, impotenza o rabbia.
Inoltre e purtroppo, l’autolesionismo è molto più frequente di quanto si possa immaginare. Gli studi scientifici riportano percentuali differenti, ma ciò che è ormai noto è che non si tratta di situazioni rare ne’ circoscritte a nicchie di persone, disturbi psichici o ceti sociali.
Va infatti ricordato che l’autolesionismo rientra nella più vasta categoria di condotte di attacco al Sé corporeo. Insieme di cui fanno parte anche i disturbi del comportamento alimentare, i comportamenti che implicano l’esposizione a rischi, i traumi ripetuti, ecc.
Fenomeni differenti tra loro ma accomunati dalla impossibilità per la persona di gestire ed esprimere in altro modo ciò che sente, prova e pensa.
Sofferenza, bisogni, desideri ed emozioni soverchiano le capacità mentali ed emotive della persona che ne viene quindi sopraffatta. L’impossibilità di trovare alternative più funzionali fa sì che la persona ricorra con urgenza a tali condotte che diventano quindi anche un rifugio e un sollievo.
La persona si trova incastrata in un vortice di emozioni e bisogni e l’autolesionismo è l’espressione del tilt come pure della soluzione urgentemente improvvisata.
È una gabbia e al contempo una protezione.
Spaventa e mortifica, ma consente anche di sfogare vissuti intensissimi come dolore, impotenza, rabbia, frustrazione, paura, inadeguatezza o tristezza.
Fa vergognare e spinge a nascondersi, ma talvolta è anche il trionfo su ciò che fino a poco prima era sentito incontrollabile.
Da sollievo e rassicura come momento necessario di quiete e solitudine.
LA CURA DELL’ AUTOLESIONISMO
Spesso necessita l’intervento di professionisti diversi come psicoterapeuti e medici.
E’ una cura che passa attraverso la possibilità per la persona di riguardare a sé e alla propria storia. A ciò che vive e a ciò che non riesce a vivere.
È un progressivo ripensarsi e un imparare o tornare a volersi bene.
Durante la cura, si costruiscono o ripristinano quelle capacità emotive e mentali che prima non c’erano o erano in stallo.
Il problema frequente è che, seppur la persona abbia bisogno di un aiuto e potrebbe beneficiarne, non riesce a chiederlo o accettarlo. Spesso accade che si nasconda pur sperando di essere vista. Che si opponga pur sapendo di aver bisogno d’aiuto.
La paralisi in cui si trova oltre a spaventare disorienta, esaspera o fa perdere la speranza non solo al paziente ma anche a chi gli è accanto.
Per queste ragioni, lo sguardo su tutto ciò può e deve essere rivolto sia dalla persona stessa sia da chi ha intorno.
Sguardo e parole devono posarsi su ciò che accade.
Si deve poter parlare di ciò che si nota, ma si vorrebbe non aver visto. Di ciò che si nasconde ma che si spera sia scoperto.
Uno sguardo che diventi parole e domande. Che non lasci sola la persona e la sua famiglia. Che interroghi chi soffre e i dottori.
Uno sguardo e una cura che accompagnino progressivamente fuori dal buio e dalla solitudine verso una nuova modalità di vivere sé, le relazioni e la vita.